11/05/2015 - A proposito di "divorzio breve"
Paradossalmente, con l’approvazione del c.d. divorzio breve il legislatore non ha fatto altro che riportare indietro di due secoli il dibattito giuridico. Infatti, è poco noto che già il Codice di Napoleone del 1800 consentiva di sciogliere liberamente i matrimoni civili, sebbene con il consenso di genitori e nonni dei coniugi. Significativamente, con il Codice unitario del 1865 e la legislazione successiva, venne invece sancita l’indissolubilità del vincolo, oltre all’introduzione del matrimonio civile in guisa autonoma rispetto a quello religioso. Divorzio che venne poi nuovamente introdotto in Italia nel 1970 con la legge n.898, che superò anche un referendum abrogativo nel 1974.
Ebbene, dal 1987 e fino a oggi la domanda di divorzio presupponeva il decorso di tre anni dalla comparizione delle parti davanti al Presidente del tribunale per il giudizio di separazione personale (nella versione originaria del 1970 era di cinque anni): un tempo ritenuto funzionale a considerare con distacco – attraverso l’interruzione della convivenza – una relazione divenuta intollerabile.
Un tempo che lasciava aperta la prospettiva di un ritorno alla vita comune, forse poco probabile ma non impossibile, come del resto è accaduto anche nell’esperienza professionale dello scrivente. Nell’ottobre del corrente anno, introducendo il “divorzio facile”, il legislatore ha eliminato per sciogliere il matrimonio, quando vi sia il consenso dei coniugi e pur in presenza di figli minori, la figura del ricorso al Presidente del tribunale o di un giudice suo delegato: è sufficiente un verbale redatto alla presenza di due avvocati, ovvero una doppia comparizione – con un intervallo di un mese fra la prima e la seconda – davanti al sindaco, o a un impiegato comunale suo delegato. Il tutto nell’ambito di un dichiarato intento deflattivo del contenzioso giudiziario.
Non solo. L’attuale novella prevede che in caso di separazione consensuale si riduca a sei mesi il periodo temporale necessario ad introdurre la domanda di divorzio; il termine più breve è applicabile anche alle separazioni che, inizialmente contenziose, si trasformano in consensuali.
Nelle separazioni giudiziali, invece, si riduce da tre anni a dodici mesi la durata minima del periodo di separazione ininterrotta dei coniugi che legittima la domanda di divorzio.
La cessazione del vincolo matrimoniale può essere chiesta da uno dei coniugi o da entrambi se è stata pronunciata con sentenza passata in giudicato la separazione giudiziale fra i coniugi, ovvero è stata omologata la separazione consensuale.
Un ultimo aspetto rilevante riguarda la separazione dei beni, che le norme finora vigenti fissano al momento del passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale e che, con la nuova legge, avviene invece nel momento in cui il giudice autorizza i coniugi a vivere separati, ovvero alla data di sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale.
In definitiva, si assiste ad un ennesima lettura da parte del legislatore del vincolo matrimoniale come di un contratto tra privati, come se lo sposarsi sia un atto tipizzante il cittadino come consumatore. Neanche l’impugnativa di un contratto assicurativo o bancario garantisce tempistiche così rapide e non vincolanti per le parti.
Letto in quest’ottica, il divorzio breve sancisce in Italia la vittoria della “società liquida”, in cui anche il legame sponsale ed affettivo è liquido e volubile e regolamentato esclusivamente dal desiderio individuale, che non soggiace a nessuna disciplina e vincolo, anche a scapito dei figli. E’ l’ennesima normativa che tipizza ed asseconda ogni forma di individualismo in nome dei “nuovi” diritti, percepiti come tali esclusivamente sotto la spinta del desiderio monadico del singolo.
Del resto affermava Bauman, padre della “società liquida”, che: “la relazione tra due persone segue il modello dello shopping e non chiede altro che le capacità di un consumatore medio, moderatamente esperto. Al pari di altri prodotti di consumo, è fatta per essere consumata sul posto (non richiede addestramento ulteriore o una preparazione prolungata) ed essere usata una sola volta. Innanzitutto, la sua essenza è quella di potersene disfare senza problemi. Se ritenute scadenti o non di piena soddisfazione le merci possono essere sostituite con altri prodotti che si spera più soddisfacenti […] ma anche se mantengono le promesse, nessuno si aspetta da esse che durino a lungo; dopo tutto, automobili, computer o telefoni cellulari in perfetto stato e ancora funzionanti vengono gettati via senza troppo rammarico nel momento stesso in cui le loro versioni nuove e aggiornate giungono nei negozi e divengono l’ultimo grido. Perché mai le relazioni dovrebbero fare eccezione alla regola?” Mutatis mutandis si potrebbe affermare: il legislatore deve normare le conseguenze sociali delle scelte individuali, o dovrebbe indagare le motivazioni prime che causano quelle conseguenze?
Incontrando chi, proprio malgrado, vive la difficoltà di una crisi matrimoniale, soprattutto se versa in una condizione di debolezza economica o psicologica verso l’altro coniuge, emerge che la prima preoccupazione non è la durata della separazione, ma la prospettiva di esistenza dignitosa, propria e dei figli. Infatti, ciò di cui si coglie l’assenza nella novella del “divorzio breve” è una fase di effettiva e concreta mediazione familiare, che verifichi se i problemi coniugali sono realmente insuperabili e – se la verifica non va a buon fine – renda il conflitto meno aspro, permettendo soluzioni condivise dopo un effettivo approfondimento. In sostanza il legislatore avrebbe dovuto adoperarsi per aiutare i coniugi in difficoltà prevedendo strumenti di effettiva tutela materiale e morale per i coniugi, invece ha optato per sacralizzare le difficoltà, rendendole al più presto definitive ed insuperabili. Il tutto in nome di un vero e proprio consumismo affettivo deresponsabilizzato.
Infatti, è significativo che una delle prime critiche mosse alla novella in esame sia il silenzio totale del provvedimento sui figli, ancora una volta trattati alla stregua di ingombri inutili, o la drastica riduzione dell'ombrello protettivo, costruito negli anni dalla Dottrina e dalla Giurisprudenza in merito alla disciplina dell'assegno separativo, che non accompagnerà più il coniuge debole ed i figli della coppia per i primi tre anni dalla separazione, ma li esporrà a dover fare i conti con la diversa natura dell'assegno divorzile, non appena decorso «un solo anno» dalla notifica della separazione giudiziale. Prevedibili conseguenze se si interpreta il matrimonio come un vero e proprio contratto d’acquisto. Del resto è notorio che in un rapporto negoziale vi è sempre la parte debole che deve soggiacere alle leggi di mercato. Inutile rimarcare che tutto ciò svuota ulteriormente di significato sociale e giuridico l’istituto matrimoniale e lo rende sempre meno preferibile rispetto ad altre forme di convivenza, senz’altro meno impegnative e soprattutto che si svolgano senza figli.
Probabilmente in un futuro neppure tanto remoto, forse si risponderà ad un novello Diogneto, a proposito dei cristiani: da cosa li riconoscerete? Anche dal fatto che hanno scelto l’impegno reciproco del matrimonio e hanno accettato di aprirsi alla vita sponsale e genitoriale, nonostante tutto.
(Articolo pubblicato sul periodico diocesano per Brindisi/Ostuni “Fermento” di Maggio 2015)